martedì 31 marzo 2015

#storia4: Quella che è diversa, in casa vostra, sono io.

Eccoci alla quarta storia. Vi voglio raccontare delle esperienze che ho fatto come educatrice domiciliare che, per chi non lo sapesse, non è né una tata, né una badante. Nemmeno ‘un badante’ stile Quasi amici, seppur questo sia un film dalla cui idea generale poter trarre riferimenti di pensiero interessanti.








L’immagine è stata tratta dal film Quasi amici, di Olivier Nakache, Eric Toledano, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera













Del lavoro educativo in ambito di Tutela minorile, parlerò nelle prossime storie. Oggi voglio trattenervi ancora sul tema della diversità. Questa volta uscendo dalla comunità alloggio per persone disabili, bussando invece alla porta di due case, due famiglie, in cui ho lavorato.

‘E’ permesso?’

La risposta è quasi stata sempre sì. E io entravo. Ma so bene quanta fatica sia costata loro il farmi entrare non solo in quella che è la loro casa, ma più che altro in quella che è la loro intimità, fortemente provata da situazioni di fragilità che, una volta aperta la porta, non avevano più la possibilità di rifugiarsi.

Il mio primo passo oltre la soglia era sempre accompagnato da gesti di delicatezza e rispetto verso le persone presenti e le attività che stavano conducendo, interrotte dal suono del campanello premuto dal mio indice. Questo nessuno me l’ha insegnato in Università. Deriva forse più da ciò che mi hanno insegnato i miei genitori: il rispetto dell’altro. E io mi sono portata questo insegnamento nel lavoro, immaginandomi ogni volta cosa sarebbe successo se, dall’altra parte di quella porta, ci fossi stata io con la mia famiglia: mi sarebbe piaciuto che l’educatrice, inviata dal servizio sociale, entrasse con delicatezza e che POI facesse il suo lavoro. E così ho sempre fatto.

In entrambe le esperienze di cui vi narro, le famiglie avevano a che fare, tutti i giorni con la disabilità, la malattia psichiatrica, la povertà economica e culturale. Genitori e figli a navigar nell’impetuoso mar di una società che è sempre troppo in tempesta per loro, sempre troppo veloce, troppo cattiva. E per questo era bene chiudere la porta di casa a più mandate, perché almeno, dentro, ci si poteva riparare.

Entrando, chiudevo subito la porta dietro di me. E poi, cercando di rispettare il più possibile i tempi di ognuno dei familiari,  perché quella diversa, in quelle case, ero io, estraevo dalla mia sacca ciò che avevo a disposizione per proteggersi dalla bufera; la porta si riapriva e, insieme, ci si allenava ad affrontare il mondo fuori da lì.
E di allenamento in allenamento, nessun miracolo è avvenuto, ma la fatica affrontata settimanalmente ha permesso di scorgere qualche ancoraggio per trovare sosta, ogni tanto, anche in mare aperto.
Riallacciare relazioni con parenti che, quando hanno tempo, possono dare una mano; insegnare cosa poter chiedere alla scuola dei propri figli e cosa no e in quali momenti; come chiedere aiuto ai servizi sociali capendo che non è vero che tutto è dovuto. Mostrare a negozianti e vicini di casa, che nessuno è un alieno, ma ognuno è particolare a suo modo e basta imparare a comunicare un po’ con tutti e non solo con chi è più facile (se lo facevo io, e mi vedevano farlo, potevano benissimo farlo anche loro); trovare il coraggio per frequentare centri diurni in cui divertirsi e impegnarsi nella ricerca delle proprie abilità, mentre i genitori potevano badare alla casa, andare in posta, fare la spesa, preparare la cena e impostare gli spazi casalinghi in modo che ci fossero quelli dedicati alla convivenza e quelli destinati all’intimità, così che l’ordine materiale aiutasse anche a fare ordine relazionale. Capire quando si è stanchi e non si riesce proprio ad affrontare la fatica di rapportarsi con tutta quella gente diversa che gira per le strade. Perché anche chi è socialmente considerato diverso, deve fare i conti necessariamente con la diversità altrui. A partire da me, la loro educatrice. Alleniamoci quindi a dire a Manuela ‘Oggi non ce la faccio, non ho voglia di stare con te’, invece che arrabbiarsi, strillare, sputare, agitarsi, spintonare e graffiare. Perché di gente come Manuela il mondo è pieno, ma non sono tutti e tutte pagate come lei, per ritornare da noi. E non è bello sentirsi soli ed esclusi.

Lavorare come educatori ed educatrici in contesti familiari in cui la disabilità è di casa, vuol dire infatti potenziare al massimo lo strumento che siamo, semplicemente perché ci siamo. E con la nostra persona portiamo uno spaccato del mondo che ogni giorno, le persone più fragili devono duramente affrontare.

Il mondo è un mare impetuso. Quindi, bando alla ciance: generare pietismo ci dà una spinta solo per poche miglia nautiche. Poi le onde ingrossano e l’imbarcazione affonda. È necessario diventare marinai il più esperti possibile.


Rivedermi come nostromo, mi fa sorridere. E un dolce ricordo va a queste famiglie che hanno imparato a sopportarmi. 

lunedì 23 marzo 2015

#storia3: diversità che convivono

Non mi ricordo quando ho cominciato di preciso. A lavorare come educatrice in due comunità alloggio per persone disabili adulte della cooperativa Il Fontanile, di Milano. Di sicuro ci ho lavorato fino ai primi mesi del 2010, maggio credo. E per due o tre anni in tutto.

Lavoravo nei week end. Le comunità erano organizzate in modo tale che agli operatori fissi, che coprivano i turni settimanali, si alternassero collaboratori nel fine settimana, così da permettere ritmi di lavoro sostenibili per tutti.

Io sono sempre stata un’educatrice definita di frontiera. Non mi è mai importato dove mi mandassero a lavorare e con chi. A me importava fare l’educatrice. Ho colto dunque questa possibilità. E mi è piaciuto moltissimo viverla.

Lavoravo nel fine settimana, ho detto. Il mio compito, quindi, era di affiancare gli ospiti delle comunità nelle attività di svago che sono tipiche dei week end, riposo compreso. Mi ricordo di gite nei parchi, partecipazione alle feste di associazioni o di quartiere, visite dei familiari, sistemazione delle camere, momenti di convivialità e di cura personale degli ospiti. Nonché, ovviamente, come in ogni comunità che si rispetti, pranzi, cene, merende e colazioni.

E’ stata per me un’esperienza molto intensa. Non solo perchè lavoravo altrove dal lunedì al venerdì e in quasi tutti i fine settimana andavo in queste comunità.
Chi non è addetto ai lavori e mi sta leggendo, deve infatti sapere che nel cuore di ogni educatore ed educatrice c’è la voglia di lavorare in una comunità prima o poi. Perché se l’educativo consiste nell’insegnare qualcosa che serve alla vita di chi incontriamo, a partire dalla quotidianità, le comunità sono quei servizi che della quotidianità si occupano in toto.
E anche io ho provato il piacere professionale di farlo. Accanto al piacere umano di condividere giornate con persone impegnate ad avere a che fare in ogni momento con la propria disabilità, con le disabilità dei conviventi ospiti e con le diversità che ogni operatore portava nelle modalità con cui interagiva con  loro e gestiva le faccende organizzative del servizio.
Io ho stimato molto queste persone. Erano molto più capaci di me di sopportare, adattarsi e mostrare i propri bisogni. Vivere, sine die, insieme a tante persone diverse, abituarsi alle particolarità di ognuno, imparare a salutare chi ci lasciava e ad accogliere chi arrivava, convivere con la mancanza dei propri familiari, cercare e proteggere i propri spazi personali, reali e figurati. Il tutto avendo a che fare con i limiti che una condizione di disabilità comporta. L’emozione era forte, ad ogni week end, e ancora ora, raccontandovelo, sento lo stomaco stringersi.

In mezzo allo stupore esistenziale che provavo, ho insegnato a queste persone a rendersi sempre più protagoniste nelle proprie scelte.
Non era facile per loro scegliere come vestirsi, cosa mangiare, come comportarsi a tavola, lavarsi o farsi aiutare nel lavarsi (quando c’era chi da solo o da sola proprio non riusciva). Pensate che sia semplice imparare a farsi mettere le mani addosso, essendo adulti, da una che si conosce poco, mentre siete sotto la doccia? E che vi dice che quel poco che riuscite a fare, dovete continuare a farlo voi, sotto lo sguardo dello stessa semi-sconosciuta di cui sopra?
Ma era importante che io insegnassi loro a lavorare sulla propria autonomia, perché questa è l’unica strada possibile per avere anche solo una minima voce in capitolo in una vita che, altrimenti, sarebbe totalmente gestita da altri.
Ho insegnato a stare in interazione con altri, ma anche a capire quando ritirarsi in privato. Come riuscire a vivere l’intimità di cui tutti abbiamo bisogno, in un luogo sempre pieno di tanta gente. Capire cosa fa bene mangiare e cosa invece no, perché invecchiando non si può più mangiare come quando si è ragazzini. Imparare a convivere con le proprie emozioni e condividerle con chi si ha accanto, per non sentirsi soli. A divertirsi con chi in quel momento ne ha voglia, accettando di lasciare in pace chi ha voglia di riposarsi o è di umore nero e ha il diritto di smaltire pensieri ed emozioni. Scegliere il programma televisivo da guardare insieme prima di andare a dormire, ricordarsi di lavare i denti, rispettare i turni per apparecchiare e sparecchiare la tavola anche quando la voglia manca. Ma anche imparare a dire quando non si sta bene e non si riesce proprio ad assolvere alle faccende domestiche. Viversi la propria adultità insomma, in un mondo in cui le persone disabili tendono ad essere viste come eterni bambini e invece hanno il diritto di veder rispettata la propria età anagrafica e il dovere di non cedere alle tendenze assistenzialiste.






Questa foto, non è della comunità, ma del centro diurno disabili Martin pescatore, di Alessandria. E' comunque una foto che immortala un momento di festa, all'interno della quotidianità che altre persone e altri educatori vivono in questo centro, nella condivisione di tante diversità.
Mi è stata concessa da Monica Massola, che lo coordina. 







E insegnando, ho imparato a riflettere su questi valori quotidiani anche per me: ho ragionato su cosa volesse dire nella mia di vita, potenziare l’autonomia all’interno delle tante relazioni che stavo vivendo. In che cosa avevo bisogno di emanciparmi. In che cosa avevo bisogno di aiuto.
Ho imparato a dosare, meglio che in altre esperienze lavorative, l’intenzionalità pedagogica con la delicatezza delle azioni attraverso cui le esprimevo.
Ho imparato che le diversità possono convivere effettivamente, non solo idealmente, perché se è possibile far convivere tante diversità in queste comunità, allora anche nel mondo fuori da lì è possibile.
E l’ideologia la lasciamo a chi ha tempo da perdere e bocche da riempire con parole vane, dalle gambe corte.

giovedì 19 marzo 2015

#storia2: tra ordine e complessità. Il coordinamento pedagogico in un cag

A chi mi sta seguendo in questo processo di personal branding, voglio fare una promessa: mi sforzerò di essere più leggera nella scrittura. Mi piace scrivere, ma sono cosciente di avere un’impostazione accademica che spesso, per il web, non è l’ideale. E siccome la voglia che ho è di raccontare le mie esperienze e i miei pensieri professionali, so che devo renderli più fruibili, se no…a chi viene voglia di leggerli…?

Abbiate pazienza. Sto imparando!

Se nell’articolo precedente ho voluto condividere con voi i miei pensieri da educatrice nei servizi rivolti alle Politiche giovanili, oggi voglio raccontarvi quello che faccio quando indosso l’abito di coordinatrice pedagogica di un centro di aggregazione giovanile.

Lavorare in un cag come educatori significa mostrare ogni giorno le potenzialità che ha lo scambio tra adulti e giovani. Qual è quel quid in più che un gruppo di ragazzi può raggiungere, grazie alla presenza di due adulti che con loro condividono esperienze, pensieri ed emozioni. E in più, fare tutto questo senza mai dimenticare lo scopo educativo di fondo: formare futuri adulti capaci di essere cittadini attivi e partecipi della comunità in cui vivono o vivranno.

Condividere momenti con i ragazzi durante il loro tempo libero, vuol dire anche presidiare il valore intrinseco che il tempo libero ha. Nella società odierna che richiede prestazioni sempre più alte e continue, è necessario dare valore al tempo libero quale spazio di diritto del riposo, della creatività, della noia anche. E gli educatori in un cag insegnano dunque a sapersi riposare, sapersi annoiare, trovando poi nella creatività quella molla che aiuta a non perdersi, a non appiattirsi, a favore del sognarsi e progettarsi.

Il mio compito è quello di aiutare gli educatori a fare ordine in quello spazio prezioso e necessario tra azioni e pensieri, che permette di preservare e agire l’intenzionalità pedagogica in tutto ciò che propongono ai ragazzi e alle ragazze che frequentano il servizio. Fare ordine nella complessità che la conduzione di un servizio educativo comporta:
quanto e come forzare i ragazzi a guardare oltre ciò che di se stessi e del mondo vedono da soli?
quanto e come accogliere lo sguardo che già hanno e valorizzarlo?
come insegnare a convivere anche con chi non ha le caratteristiche per essere l’amico o l’amica ideale?
cosa farsene delle fatiche di crescita che raccontano?
quali prendere in carico e quali invece accompagnare a chi è più adatto per trattarle?
come essere un punto di riferimento per i genitori e per gli insegnanti?
come essere interlocutori interessanti per altre realtà presenti nel territorio?


Il mio compito è poi anche quello di mantenere i rapporti con l’Amministrazione comunale che crede in questo servizio e lo finanzia, facendo in modo che crisi o non crisi, la comunità possa continuare a godere di questo servizio. 

Riempie di soddisfazione accorgersi che da gestori delegati di un servizio pubblico, si diventa soggetti interessanti per progettare insieme passo dopo passo nuove occasioni di crescita e cura per i ragazzi e le ragazze della comunità territoriale.

Ed è bellissimo accompagnare i colleghi nella loro pratica professionale, aiutandoli ad evolvere come professionisti, a conoscersi meglio e ad approfondire la conoscenza dell’organizzazione per cui si lavora, comprendere quali bisogni formativi hanno e accudirli.





I colleghi che coordino e che hanno voluto metterci la faccia....e sopportano di farsi fotografare dopo una riunione, perchè un po' mi vogliono bene! :)

lunedì 16 marzo 2015

#storia1: le Politiche giovanili e le evoluzioni di senso

Oggi voglio farvi compartecipi di pensieri che, da qualche anno, sto facendo lavorando come educatrice nei servizi educativi rivolti a ragazze e ragazzi nell’ambito del loro tempo libero.

Ho iniziato a lavorare in questi servizi da subito, nel 2004. Prima con Cooperativa Aeris e dal 2010 con Cooperativa Milagro.

Nel corso di questi 11 anni, ho fatto molto e riflettuto altrettanto. Le indicazioni politiche che governano questa tipologia di servizi sono cambiate, a volte in maniera più estemporanea, altre con un’organicità che ha saputo lasciare il segno.

Spesso capita infatti che i Servizi cambino nome, ma non sostanza. Costituiscono un’offerta al pubblico, qualcosa che serve alle persone. Cambiare nome a volte permette un aggiornamento con i tempi della forma del prodotto, la possibilità per un servizio di rimanere accattivante sul mercato, di essere ‘venduto’, perché continuamente utilizzato. Lo stesso vale per i Servizi socio-educativi.

In questi ultimi anni però sto assistendo ad un fenomeno nuovo. Esistono alcuni servizi educativi a cui non si sta facendo solo un restyling di forma, bensì di senso.

Tutto è cominciato, per lo meno in Italia e nel milanese, tre anni fa o poco più. È questa una delle volte in cui la contrazione di risorse economiche ha permesso agli operatori di settore di compiere una virata netta, lasciandosi alle spalle il concetto di centro di aggregazione giovanile e le azioni di educativa di strada.

Dagli anni ’80 sono stati questi i due servizi destinati per mandato sociale ai compiti di prevenzione secondaria nel tempo libero. Il pensiero pedagogico si è da subito premurato di delinearne la loro funzione educativa. I centri di aggregazione sono stati infatti luoghi in cui gli educatori incontrano i ragazzi nel loro tempo libero, per offrire occasioni di progettazione di vita. Si sa infatti che i momenti di disimpegno sono perfetti per sognare e sognarsi, immaginarsi in un futuro lontano ma anche prossimo, pensare a come sarà la vita ‘da grandi’, da adulti. Al di là che si viva in condizioni di cosiddetta normalità o di disagio. L’educativa di strada invece è stata pensata per raggiungere quei gruppi informali di ragazzi e ragazze che sono restii alle appartenenze istituzionali, quelli per cui, per esempio, ‘io in un centro di aggregazione non ci andrò mai’, ma che hanno voglia di dire la loro e di mostrare cosa possono dare alla loro comunità. Anche qui l’occhio del mandato sociale vuole lavorare sulla prevenzione e sulla riduzione del danno, perché è luogo comune che  più si sta lontano dallo sguardo adulto che cura, più è facile inciampare in abitudini che alla lunga possono diventare dannose per la persona. E ancora una volta lo sguardo pedagogico è riuscito a declinare il tutto, insegnando a questi ragazzi e ragazze cosa farsene della loro voglia di in appartenenza e di come imparare a stare in una comunità che sentono più stretta dei coetanei che almeno i centri di aggregazione decidono di frequentarli.

Al giorno d’oggi, di Educative di strada, da queste parti, non se ne ritrova quasi più traccia. I centri di aggregazione invece, non tutti, resistono ancora. Ma per quanto? E perché soprattutto?

Al di là di risposte a favore o contro la permanenza di questi servizi, ciò che a mio parere è un dovere professionale del pedagogico è porsi la domanda (P. Barone, 2009): siamo certi che i servizi oggi in essere accolgano i bisogni socio-educativi attuali dei cittadini a cui sono offerti?

Riguardo alle Politiche giovanili trovo molto interessanti alcune sperimentazioni del territorio milanese che hanno voluto trasformare i centri di aggregazione in hub territoriali, poli che trovano un senso non tanto per ciò che sono all’interno delle loro quattro mura, quanto più per ciò che possono offrire a partire dalla co-progettazione con gli hub a loro confinanti: la comunità giovanile, la comunità adulta, gli Oratori, le polisportive, i centri per persone disabili, la scuola, i centri anziani, i servizi per il volontariato e chi più ne ha più ne metta.

Mi si potrà dire che tutto ciò è sempre avvenuto. Io, che lavoro da più di un decennio in servizi per i giovani, risponderò che invece non sempre è stato così. I centri di aggregazione spesso si sono isolati, sono diventati ghetti dorati per ragazzi e ragazze che hanno compiuto percorsi educativi molto ricchi e interessanti, ma di cui molto spesso si è faticato a mostrarne alla comunità il valore e la portata. E non basta che educatori e coordinatori siano stati capaci di porre in evidenza i progetti e le intenzioni. Ciò che conta, a mio avviso, è che i gruppi di ragazzi e ragazze che li hanno frequentati, hanno attraversato quel servizio, non la comunità in cui vivono. Quello che si sente come bisogno attuale è che la comunità si occupi dei propri cittadini, non solo offrendo loro servizi, ma che ci sia una presa d’atto di corresponsabilità e che questa corresponsabilità sia attiva, giocata da tutti in prima persona e non delegata ai professionisti. Competenza di questi ultimi quindi sarà quella di costruire occasioni di scambio, di formazione in itinere e di presa in carico in cui ogni cittadino si attiva, a partire dal ruolo sociale che riveste in quello specifico incontro.

C’è in atto una vera e propria evoluzione di senso. Non esistono più i ragazzi del centro di aggregazione tal dei tali, esistono invece i ragazzi di quel paese, di quella città, in cui tra le varie offerte esiste anche un centro di aggregazione che loro frequentano. Cosa vuol dire? Cerco di chiarificare il mio pensiero soprattutto per i non addetti al lavoro con i giovani: ciò che a mio avviso sta succedendo è che non basta più che un Ente pubblico deleghi ad un Servizio la cura di un target dei propri cittadini, finanziando le spese della struttura e il costo degli operatori che la gestiscono. Oggi è necessario che Pubblico, Terzo settore e volontariato co-progettino a partire dall’azione del bando di gara, si co-attivino e a cascata convochino i diversi soggetti territoriali. Questo perché è anacronistico pensare che ai giovani di oggi possano bastare le offerte, pur ben pensate, di un unico servizio. I ragazzi e le ragazze oggi navigano nel web, non hanno la percezione dei confini geografici del proprio paese o del proprio quartiere, hanno confini legati ai propri interessi e si spostano laddove possono coltivarli, fisicamente o digitalmente. Hanno quindi il diritto di essere accompagnati nella strutturazione di ponti semantici  che permettano loro di tessere una rete territoriale, che non imbriglia, non trattiene, ma costruisce possibilità concrete di scambio e di crescita reciproca. Ciò che i ragazzi e le ragazze esprimono in un centro di aggregazione, difficilmente sarà differente da ciò che portano altri giovani nell’Oratorio che frequentano, nelle polisportive, sulle panchine di un parchetto o nel servizio di volontariato in cui operano.

In effetti, il problema non è e non può più essere, interrogarsi sulla definizione di spazi sociali capaci di funzionare da calamite, in grado perciò di coinvolgere adolescenti all’interno del proprio perimetro; un perimetro cui corrisponde spesso anche il raggio di azione dei luoghi educativi così immaginati. Il problema, esattamente all’opposto dell’ideale aggregativo, è quello di lavorare sulle dispersioni, sulle circolazioni, sulle potenziali traiettorie e sulla capacità di uno spazio sociale di funzionare da possibile “connettore”, affinché tali movimenti intercettino le risorse di un territorio. (Barone, 2009, pag.170)
Perché quindi un’attività pensata al centro di aggregazione non può incontrare anche i ragazzi che non lo frequentano? E perché una attività ideata, per esempio, in una polisportiva giovanile non può essere allargata alle altre agenzie del territorio che si occupano di giovani? Diverso è pensare a una attività calata sui frequentanti abituali e poi promuoverla anche ‘al di fuori’, dal progettare a partire dagli interessi dei giovani di un paese e decidere in seconda battuta quale sia il luogo fisico in cui proporla aprendo le porte a tutti i potenziali interessati.

Sono gli adulti, professionisti e non, che ancora una volta devono evolvere i propri paradigmi di pensiero. I ragazzi e le ragazze già da anni, ci segnano la strada. E non perché siano più intelligenti, non voglio necessariamente elogiarli. Semplicemente perché vivono spontaneamente cogliendo ciò che li raggiunge, ne seguono la tendenza, al di fuori di ogni preconcetto e formattazione adulta. Un servizio pubblico, come un centro di aggregazione, non può essere geloso delle proprie iniziative. Deve offrire un servizio alla cittadinanza, trasformarsi da centro a polo tra i tanti in cui si dà la possibilità di connettere reti di interessi e territoriali. Mantenendo certo la propria specificità di offerta, altrimenti, come sempre è stato, non servirebbe avere poli cloni.

Non mi sono dimenticata delle Educative di strada. Oggi esistono sperimentazioni di Educativa territoriale: educatori che girano ancora per le strade, i parchi e i luoghi frequentati da gruppi informali di ragazzi, ma che contemporaneamente, come mandato specifico e non come effetto collaterale, connettono le diverse agenzie che sul territorio si occupano di giovani, ne permettono l’incontro, mostrano i nessi tra le diverse progettazioni e le possibilità, rinforzano una rete capace di accogliere i bisogni e gli interessi dei giovani e creano occasione di confronto tra gli adulti che queste realtà sostengono.

A mio parere è questo che al giorno d’oggi significa occuparsi di Politiche giovanili. Questo permette di avvicinare la politica alle persone, lontano dagli slogan propagandistici e di promozione di un’appartenenza. Questo è offrire occasioni solidali di incontro e di presa in carico. Questo è formare una comunità perché evolva dall’offerta di servizi competenti, all’assunzione delle proprie responsabilità educative, diventando una comunità competente.

Ed è questo uno dei miei pezzi di lavoro che, con Cooperativa Milagro, svolgo settimanalmente nel ProgettoGiovani Pessano con Bornago.






Questa foto risale a qualche anno fa. molti di questi ragazzi di Pessano con Bornago ora lavorano, studiano all'università o sono in giro per il mondo solcando strade per costruire il proprio futuro.









Voi cosa ne pensate? Riconoscete questo trend evolutivo? Lo ritrovate anche in servizi destinati ad altri target di utenza?

giovedì 12 marzo 2015

#storia0: perchè da dove si proviene, è importante

Ho capito di voler lavorare nel mondo educativo in quinta Liceo, arrivato il momento di pensare alla facoltà universitaria da scegliere. Ero molto interessata a lettere moderne, che poi ho scartato perché non volevo restringere l’ambito educativo al solo insegnamento scolastico. Ho scartato poi psicologia, perché avevo voglia di stare a contatto con le persone, fianco a fianco. Ed ecco che iscrivermi a Scienze dell’Educazione è diventata la scelta ovvia. E, con il passare del tempo, anche proprio giusta per me.

A dirla tutta, l’università è l’unico grado scolastico che rifarei al volo! Mi hanno appassionato gli argomenti, mi ha appassionato l’ambiente accademico e di scambio con compagne e compagni. Appena potevo ero là, nell’edificio U6 di Milano-Bicocca, anche quando non c’era lezione. Per studiare e respirare quell’aria che, per me, proveniente da un piccolo paesino di Provincia, ha aperto sogni e possibilità.
Chi conosce la zona sa che non è proprio quella che si può dire essere una bella zona. E a maggior ragione non lo era allora, quando il polo universitario era appena stato aperto e tutto intorno regnavano gli scheletri di vecchie industrie man mano abbattute per dar la possibilità ad abitazioni, locali e servizi di generarsi e proliferare. Era il 1999. Però vi assicuro che in mezzo a quel grigiore, tra i corridoi dell’edificio e i suoi chioschi che davano respiro al cemento imperante, io ho trovato la mia strada. E ricordarlo ora, con voi, mi emoziona ancora.

E’ stato qui che ho scoperto lo spazio della pedagogia all’interno del vasto mondo delle scienze umane. Ho incontrato la specificità pedagogica, soprattutto incontrando Riccardo Massa e i suoi allievi, partecipando alle loro lezioni e studiando i loro testi. E le mani mi prudevano. Era tanta la voglia di metterle in pasta! Perché se ‘la pedagogia è la scienza strutturale dell’educazione’, ed una scienza necessariamente teorico-prassica, io sapevo che non potevo solo studiarla, dovevo anche praticarla.

Ho però tenuto duro. Ho dato precedenza agli studi facendo mille lavori nel frattempo per mantenermi e poi, poco prima di discutere la tesi, sono entrata nel mondo dell’educazione professionale.

Da allora sono trascorsi undici anni. Ho lavorato in più organizzazioni del Terzo settore e ho attraversato quasi tutti i servizi educativi ad oggi esistenti. Non solo. Da 8 anni a questa parte ricopro anche più ruoli, passando dai panni dell’educatrice, a quelli di coordinatrice, orientatrice, formatrice e consulente. Tutto all’interno all’interno della stessa settimana. Mica male vero? A me piace moltissimo!

Come capirete il materiale da raccontare è molto. Ho bisogno quindi di operare una forte selezione, per non annoiare voi e per evitare che io mi disperda.

Decido perciò di iniziare un viaggio nella mia storia professionale, accompagnandovi tra tematiche e luoghi professionali che ho incontrato, alla ricerca della composizione del puzzle che è la mia vita professionale.




L’immagine è stata tratta dal film Puzzle, di Paul Haggis, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera








Mi auguro vi venga un po’ di voglia di fare questo viaggio insieme a me e vi do appuntamento a lunedì 16 marzo, per raccontarvi la #storia1.