martedì 14 aprile 2015

#storia5: proteggere i contesti per centrare il pedagogico

Dopo una pausa dovuta a festività e a qualche imprevisto di vita, ritorno a scrivere in questo processo di narrazione delle mie esperienze professionali.

Uno degli abiti che professionalmente indosso è quello di coordinatrice di servizi educativi per la Tutela minorile.
Sto parlando di educativa domiciliare, spazi neutro, mediazioni educative, tutoring, centri diurni educativi , incontri protetti e altre azioni e servizi educativi che di volta in volte possono essere attivati.

Tutti questi servizi sono accomunati dall’essere servizi territoriali. Operano quindi nel territorio in cui i minori e le loro famiglie vivono. E al di là delle specificità che contraddistinguono ognuna di queste tipologie di intervento, quando si lavora in Tutela si lavora per proteggere qualcuno e qualcosa.





L’immagine è stata tratta dal film Polisse, diretto e interpretato da Maïwenn, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera







Ma chi e che cosa proteggere?

Il lavoro educativo in questi servizi ha origine dall’impianto legislativo che protegge i minori, e per questo si chiama Tutela minorile, ma il nostro lavoro ha bisogno di trovare percorsi propri per esprimersi al meglio.

A livello educativo dunque, ciò che c’è da proteggere è l’esperienza educativa che si propone: cosa ha da imparare un minore che vive in un nucleo familiare fragile? E cosa deve imparare la sua famiglia?

Vi faccio alcuni esempi: per chi vive in queste situazioni di difficoltà, c’è spesso bisogno di imparare a crescere come individui, giovani e adulti, che non hanno avuto tutte le fortune di questo mondo; conoscere e accettare le particolarità del proprio nucleo familiare, salvando le proprie possibilità di riscatto esistenziale; che nessun genitore è perfetto, ma che l’importante è interrogarsi sulle proprie modalità genitoriali; immaginarsi il tipo di famiglia che si vorrà costruire e se si avrà voglia di costruirla; cosa sbaglio nell’interazione con mio figlio o con i miei genitori e quali altre possibilità relazionali ho a disposizione e posso cogliere; come faccio a essere genitore anche se i rapporti con il mio partner si sono interrotti bruscamente, a tal punto che si è valutato necessario l’intervento dei servizi sociali; ricordarsi che esiste un mondo fuori dalla 4 mura domestiche e che, se all’interno si fa fatica a vivere, il mondo fuori può dare possibilità di vita.

Il lavoro educativo in Tutela minorile ha bisogno di potenziare questa visione sociale delle proprie azioni. Un conto è rispettare la privacy delle persone in carico ai servizi sociali, un conto è rinunciare alla dimensione sociale delle azioni educative. Perché l’educativo perde il suo senso più profondo se si rinchiude tra le 4 mura. Persino l’educazione naturale ha senso perché ‘ciò che si impara in casa’ servirà poi per essere parte del mondo. E l’educazione professionale non può dimenticarsene.

È difficile, certo, gironzolare per le vie del paese o della città con un educatore, che non si sa nemmeno mai come presentare, perché farlo vuol dire lavare i propri panni sporchi in piazza. È prezioso l’aiuto che l’educatore stesso può dare in questi momenti, capendo di volta in volta quanto esporsi ed esporre e quanto far passare inosservato, proteggere appunto. Ma è anche di valore insegnare alla società che tutti possono affrontare fatiche e aver bisogno di aiuto. E che non si è persone peggiori se si ha bisogno, ma che ci vuole tanto coraggio nel farsi aiutare. In un mondo in cui è necessario figurare sempre come i primi e i migliori, il lavoro educativo in Tutela minorile può insegnare molto.

Come coordinatrice pedagogica lavoro attualmente con due équipe e 8 educatori in totale. Il mio compito consiste nell’accompagnare ognuno di questi colleghi nelle pratiche e nelle scelte educative che devono compiere quotidianamente. Aiutarli a distinguere ciò che è emergenza, e capire come e se attivarsi di conseguenza, e cosa invece rientra nella ‘normalità’ di vite affaticate, che hanno bisogno di un supporto ma anche di imparare a convivere con le proprie fatiche, sviluppando man mano competenze di resilienza e consapevolezza delle proprie condizioni e delle potenzialità che noi abbiamo visto in loro e abbiamo il compito di mostrare.

Non è facile entrare in case altrui e vestire il ruolo educativo. Ci si sente di troppo, si sente ogni giorno la fatica che facciamo fare. Ma visto che ci siamo è necessario far fruttare le scomodità che generiamo, per poter salutare il più in fretta possibile i nuclei familiari che spesso, nel frattempo, hanno imparato ad accettarci.

Il ruolo di coordinamento che rivesto ha anche il dovere di far incontrare il mandato sociale con il mandato pedagogico. Il primo è il motivo per cui i servizi sociali chiedono l’attivazione dell’intervento educativo. Il secondo è il motivo per cui queste famiglie hanno bisogno di un educatore e non di altri esperti o di semplici controllori e osservatori. Il mandato pedagogico si sostanzia nella domanda cosa ha bisogno di imparare questo nucleo familiare? Che cosa possiamo insegnare loro? Quale intervento educativo, tra i tanti di cui dispone la Tutela minorile, è giusto attivare? Qual è il modello pedagogico che caratterizza la cooperativa sociale per cui lavoriamo?

E gironzolo quindi settimanalmente tra i servizi sociali, con o senza educatori, per continuare a rendere sempre più prossimi gli ideali di intervento e di scelte pedagogiche con le possibilità reali che ci sono. È un incontro tra culture professionali quello che avviene ogni volta che mi siedo davanti, o di fianco, ad assistenti sociali e psicologhe o psicologi della Tutela. Capita di non essere d’accordo, che il pedagogico venga visto come un lusso che non ci si può permettere quando una famiglia ha bisogno di aiuto. E nel tempo ho imparato a cogliere il valore di queste resistenze: non ci si può mai incontrare se non si fa un passo verso l’altro. E compiere questo passo permette poi di aprire possibilità al pedagogico. E io posso tornare a casa o dirigermi verso altri servizi sociali, soddisfatta per aver fatto il lavoro che amo e per aver contribuito a costruire un pezzo in più di integrazione tra culture professionali, organizzative e personali differenti.


Vi saluto ora. Mi stanno aspettando in un servizio sociale!